Un’ora d’aria lunga sei giorni

Capitolo 4 – … lunga sei giorni

« Il mondo è un’immensa città. È un mondo-città. Tuttavia, è altrettanto vero che ogni grande città è un mondo e persino che ognuna di esse è una ricapitolazione, un riassunto del mondo […]».

(Marc Augé, Non luoghi)

17 Marzo 2014

Ambasciata Indonesiana

Johanna se n’è andata stamattina. Io rimango fino a domani, ho un visto in sospeso.

Mi godo le tre ore di attesa in perfetto stile giavanese (ho imparato tanto in questi mesi), tentando di strutturare con una parvenza di programma la mia giornata da ‘single’. Poi mi dico che semplicemente comincerò a camminare dove mi pare seguendo l’istinto e l’ispirazione fotografica.

Un’ora d’aria lunga sei giorni.

Le Petronas Towers. Era quasi scontato che l’istinto e l’ispirazione mi portassero qui. Dove altro? Questo è il centro del microcosmo KL-iano, questo è il cuore pulsante della tigre.

Mi godo ore di libertà più totale.

Da sola.

Puoi fare tante cose, quando sei da sola.

Puoi attendere minuti e minuti sotto una tettoia, piantata davanti a tre grattacieli con la tua macchina fotografica, in attesa del treno che passi a completare il paesaggio. Aspettare qualcosa che colmi lo spazio vuoto, senza fretta.

I tuoi tempi. I tempi del tuo treno che passa.

Puoi fermarti sotto la stessa tettoia, accovacciarti accanto la fermata dell’autobus, appoggiata contro giganti cartelloni che sponsorizzano compagnie aeree asiatiche, e scrivere. Così, esattamente in quella posizione.

Puoi anche decidere di alzarti dopo un po’, e continuare a scrivere camminando.

Camminare scrivendo.

Tanto poi ci pensa il computer a riordinare gli scarabocchi sparsi sul tuo taccuino. L’importante è il pensiero centrale. Cogliere il nocciolo della questione. Cosa vuoi dire?

Cosa volevo dire? Quando andrai a rileggere quegli sgorbi decentrati, tutto ti tornerà in mente. Soprattutto quello che non hai scritto. E puoi fare anche altro.

Quando sei sola.

Per esempio, sbagliare strada, fregartene, prendere la prima traversa che ti ispira, la prima via d’uscita dalla retta via che coglie la tua attenzione per qualcosa di particolare. Un segno, un messaggio subliminale sottoforma di un qualsiasi elemento architettonico, una reclame, un decoro buttato lì a scolorirsi al sole, un cassonetto dell’immondizia dalla forma bizzarra.

Una scemenza qualsiasi. La tua linea guida.

Puoi continuare a seguire la pista, o limitarti a scattare qualche foto, buttare giù qualche appunto e tornare indietro, scegliere un’altra possibilità. Finché, all’improvviso, ti ritrovi nella strada che cercavi senza cercarla.

Perché, in fondo, il cuore del viaggiatore sa sempre come raggiungere la propria meta. È che a volte, semplicemente, non vuole. Perché ci sono troppe cose di mezzo che non può assolutamente rischiare di perdere, quindi preferisce perdere, momentaneamente, sé stesso.

Monorail

Il parco

Pioggia incessante.

Cielo asettico.

Pochi asiatici in completo da ufficio con ventiquattrore e ombrelli scuri che camminano a passo veloce. Il ritratto del business.

Uomo con ombrello, olio su tela 170×90.

Io, rifugiata sotto uno scivolo a forma di castello blu e giallo, osservo le giganti gemelle davanti a me pensando semplicemente al momento presente. Non è che voglia impedire ai pensieri di scorrere liberi, possono farlo, ma defluendo lungo corsi laterali, lasciando un ampio letto calmo e senza increspature al centro della mia mente. Possono rimanere come sottofondo, a riempire i vuoti, a colmare l’atmosfera. Non gli consento di essere la star di punta della rappresentazione. Stavolta no.

Non sto cercando di fare roba zen. Non ne so un tubo di meditazione e mi annoia da morire. È che semplicemente oggi ho deciso di fare solo quello che sento.

È la giornata dell’estrema anarchia dell’ego solitario. L’ultimo giorno di ora d’aria lunga sei giorni.

Il livello più estremo. Fin dove è in grado di estendersi la tua voglia di libertà?

Rimango così finché non mi stufo di non pensare. Poi ricomincio da pensieri semplici.

Che ore sono. Le quattro e mezza. Non ho ancora pranzato.

 Il pollo tandoori.

Piove ancora.

Reticoli di luce lampeggiano vicino all’estremità superiore delle Petronas. Un pinnacolo di 73,5 metri. Settantatré virgola cinque metri di parafulmine. Più di settanta metri di acciaio conficcati nel cielo come chiodi in un vecchio materasso grigio.

Forse è ora di andare.

Le Petronas
Il cuore della tigre
Il parco
Prospettive
Gemelle

Ci vediamo da Mario, prima o poi

Stessa locanda indiana ‘sotto casa’. Il cameriere Frankenstein, mi porta la seconda tazza di tarik, mentre consulto la mappa del quartiere di Little India.

E ho davanti il mio pollo tandoori. L’ennesimo.

Sono felice.

Ultima notte da tigri

Rientro alla guesthouse alle 22.30 circa.

Un arabo seduto nel divano in pelle sintetica marrone e sgarri, nell’atrio, ‘pretende’ che io parli la sua lingua.

“Xjofjofhjshjshk”

“Sorry? Can you speak English?”

“Knskfjkdfjkhj”

“Bahasa Malesia?”

“Kdsnfkjhsdkhfjksdhf”

“Bahasa Indonesia?”

“Jkaskhsfhkfhknsdn”

“Spanish? French? Italian?”

“Ksjdsidskjkh”

“Goodnight”.

“Siojsfjisjfskmkju”.

Il proprietario ride come un matto dal banco reception.

Grazie a botta di fortuna estrema e inimmaginabile, la mia stanza dormitorio si rivela una singola. Tutta per me. Si ringrazia con commozione tutti quelli che sono fuggiti inorriditi di fronte alla palazzina degli orrori. Ben due metri cubi di pareti color carta da zucchero stile ricovero feriti di guerra, freddi tubi metallici di letti a castello, ampia finestra su pianerottolo con vista ottimale della rampa di scale e aria condizionata. Ma solo a tratti.

Figuriamoci se non c’era qualcosa di fallato.

Non potevo chiedere di meglio.

KLIA ore 14.00

I tragitti città – aeroporto sono sempre meno suggestivi di quanto ci si immagini. Ti fanno scemare le aspettative. Sarà che sembrano tutti uguali, come degli atemporali portali d’ingresso, dei corridoi di servizio su altre realtà. Ti danno il tempo di prepararti fornendoti spunti che si discostano gradualmente dai capisaldi del tuo orientamento, ma che non si allontanano mai del tutto. C’è sempre un monotono guardrail o qualche cespuglio informe a infonderti la calma. Ti lasciano sempre qualche appiglio per andare avanti o tornare indietro, lì, sospeso tra due dimensioni.

Lo stadio ha un’architettura che ricorda vagamente quella dell’Olimpico. Ma forse lo ricordano un po’ tutte e nessuna davvero. Nei nostri viaggi, c’è sempre qualcosa che ricorda qualcos’altro a noi e solo a noi, come se fosse ogni volta una ricapitolazione di un’esistenza per immagini simboliche. Il viaggio all’esterno è solo la punta dell’iceberg, è almeno dieci volte più statico di quello che avviene dentro.

A guardarlo meglio ci si rende conto che ci sono innumerevoli differenze, a cominciare dalle minuscole dimensioni e la locazione decisamente ‘amena’. Questo ovale bianco candido si staglia nel bel mezzo di una landa desolata tra palme rade, distesa di terra polverosa e calcinacci e pochi residui di elementi urbani.

Cantieri edili ovunque. Palazzoni decadenti e sporchi con file di minuscole gabbie-balconcino, tappezzate di panni stesi e sbrindellati malamente. L’esotismo vola via come un foulard troppo lento al collo di una signora in sella a un motorino. Mi viene in mente il quartiere di Torre Vecchia, ci risiamo.

Poi tutto ciò comincia a scomparire. E iniziano le palme.

Palme su palme.

Palme, palme, palme, palme…

Giro la testa dall’altro lato, verso il corridoietto del bus. Un corpulento signore malese con camicia batik e distintivo di una compagnia aerea mi sorride melenso dal sedile a fianco. Mi rigiro dal lato finestrino.

Decisamente palme.

Mentre salgo sull’aereo mi rivengono in mente dei flash.

Gli odori del mercato cinese.

Il durian. Noodle fritti. Spiedini di pesce. Strade vissute. Le carrozze solo per signore. Il pakistano dell’ostello. L’ostello. I marciapiedi. Le torri Petronas appiccicate su ogni tipo di sfondo cittadino, in qualsiasi colore, gradazione di luce e ora del giorno.

Lo stuart malese mi dice: “Tante grazie”, in italiano.

E come niente sono di nuovo a casa, a casa di qualcun altro.

‘Sorridi sempre’