«We were bringing that distasteful old world of arcane traditions and primitive beliefs into the space inhabited by modern, functional Indonesia. I began to feel positively uncomfortable».
(Elizabeth Pisani, Indonesia Etc.)
5 gennaio 2015
Trenggalek
Oggi la sveglia è a suon di botti. Ci affacciamo dalla finestra pronti ad un’evacuazione militare: c’è un’intera ala dell’hotel in costruzione.
Già che ormai siamo in piedi scendiamo nella sala colazione. Camerieri impettiti e cerimoniosi ci portano una serie di cose che ormai appartengono a vite passate: toast con burro e marmellata, succo d’arancia, tovaglioli e coltelli (un grande ritorno, come riabbracciare un lontano parente). Dopo averci imbandito la tavola rimangono a fissarci in attesa che cominciamo a mangiare, in modo abbastanza inquietante.
Per la prima volta soddisfatti della colazione in quindici giorni, andiamo a rifare i bagagli. Le ciabatte batik vengono con noi. Indosso la maglietta di Sukarno colma di furor di patria e ci imbarchiamo alla volta di Goa Lowo, la grotta dei pipistrelli, che è indicata come la grotta più grande del sudest asiatico. Apparentemente, uno dei siti turistici più in voga in questa parte di mondo è a Trenggalek.
Percorriamo quindici chilometri nella direzione da cui siamo venuti ieri, ripassando davanti al glorioso Pertamina. Svoltiamo per una strada secondaria in direzione di una spiaggia, una strada che a detta di quelli dell’albergo dovrebbe essere “baaaaagus!” (“buonissima”, con enfasi). È una serie di buche rappezzate con toppe di cemento cedevoli. Abbiamo visto di peggio, ma dovremmo riconsiderare i pareri sulle strade che ci vengono dati a caldo.
Il parcheggio del sito è deserto. Paghiamo 7.500 rupie a testa all’ingresso e imbocchiamo il viale d’accesso costeggiato da warung chiusi. Ci siamo solo noi, sono finite le feste.
Incrociamo solo due scolarette musulmane in divisa bianco azzurra che si lanciano nelle solite risatine civettuole.
L’entrata della grotta è ampia e suggestiva, e più accessibile di quel che immaginassimo. Una passerella in cemento illuminata da lampioni si snoda per tutta la lunghezza della grotta. Non dovremo guadare fossi, apparentemente. Non solo, c’è anche il tocco della casa: altoparlanti saturi di dangdut. La grotta più grande del sudest asiatico, che implode a ritmo di dangdut.
Percorriamo tutta la lunghezza del sentiero illuminato finché non ci ritroviamo davanti ad una suggestiva scalinata alla cui sommità si staglia una scritta luminosa su sfondo nero stile jazz-cafè:
GOA LOWO
GROTTA DEI PIPISTRELLI
È tipo ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate’, ma a ritmo dangdut. Alla fine di una buia e cupa scalinata sbuchiamo, con grande sorpresa, all’area istirahat (‘riposo’). Uno spiazzo deserto con panche e tavoli in pietra, sempre col dangdut che risuona come un’eco dagli inferi. Giustamente, dopo poche centinaia di metri di grotta, ce ne era bisogno.
Dopo l’area di sosta, il tragitto continua verso la parte più profonda della grotta, quella più suggestiva, ma anche la più infida. Il primo tratto è finalmente buio e silenzioso come ogni grotta che si rispetti, con il verso dei famosi pipistrelli che risuona qua e là. Dal volume sembrano tantissimi, forse centinaia o migliaia, appostati in qualche meandro oscuro sulle nostre teste come minacciose presenze invisibili. Ma qualcosa di tangibile c’è: il guano.
Strati di scivoloso e maleodorante guano ricoprono il sentiero e il corrimano. Già mi vedo a sguazzarci dentro a faccia avanti. Inaspettatamente, ne usciamo indenni. Flashback:
Io che chiedo al bigliettaio indicando le mie ciabatte infradito: “Posso andare con queste?”. “Si si, vai tranquilla”.
Il punto dove termina la grotta è una larga cavità illuminata da qualche raggio di sole che filtra da un’apertura nella parete superiore. Tornando indietro per lo stesso sentiero riesco a mettere a fuoco per la prima volta le stalattiti e stalagmiti dalla grandezza impressionante. Noto anche come le rocce umide e porose abbiano forme mostruose.
Usciti di nuovo all’aria aperta, realizzo che anche il mio ultimo paio di leggins è fuori combattimento. Un tripudio irrecuperabile di fango e guano. Entro nella toilette pubblica a farmi la doccia vestita. Dopo i bagni al mare ormai chi mi ferma più.
Sul vialetto di ritorno verso il parcheggio compriamo da un venditore ambulante una banana lunga più di venti centimetri e larga almeno tre, con la consistenza di un tronco. Al parcheggio ritroviamo le due scolarette appollaiate sul nostro motorino. Hanno atteso tutto il tempo della nostra visita per chiederci una foto. Questa cosa ci sta sfuggendo di mano.
La strada di ritorno verso Trenggalek (che percorriamo ormai per la terza o quarta volta) è divenuta un ingorgo immane a causa di una cerimonia che si tiene presso una casa privata. Camion e macchine intasano la carreggiata dimezzata dagli addobbi del gazebo che sporge dalla facciata e invade una corsia sana. Nel dubbio, impazza il dangdut.
Ergo: rimaniamo mezz’ora bloccati tra parcheggi fatti male, autisti col timore di sporcare le familiari multiposto nuove fiammanti che procedono a dieci chilometri orari a distanza di due metri gli uni dagli altri. Gli invitati entrano ed escono in perfetti completi batik abbinati tra moglie e marito tra cibo, fiori, bevande. Tak dung dang dut.
Facciamo pausa pranzo nella località di Durenan. Prendiamo il solito soto ayam (confidando che ormai non ci siano più varianti fantasiose, siamo rientrati in zona franca) con succo di guava e krupuk dai colori fluo. Dall’abitazione sull’altro lato del piazzale degli altoparlanti diffondono musica gamelan. Ogni tanto qualcuno sente il bisogno di condividere i propri gusti musicali col vicinato. Se non altro, non è dangdut. Ripartiamo sul colpo finale di gong ageng con grande effetto scenico.
Torniamo in hotel a recuperare tutta la roba. La roba: zainone, borsa del materiale elettronico, borse con effetti personali, busta con panni infangati, bustina con residui di conchiglie, bustina con residui di cibo e scorte, collezione di bottiglie vuote.
Ripartiamo festanti alla volta di Pacitan. Dopo cinque chilometri la gomma posteriore è a terra. Ci infiliamo nel primo tambal ban che troviamo. Ci chiediamo come questo motorino stia ancora in piedi.
Stavolta niente rappezzamenti a ferro e fuoco, ce la cambiano e buonanotte ai suonatori. Forse abbiamo finito le tribolazioni.
Il meccanico ci raccomanda di fermarci nelle ore più calde in cui l’asfalto diviene troppo rovente, questo è uno dei possibili problemi. Se sapesse anche tutti gli altri ci bucherebbe entrambi i copertoni e ci chiamerebbe un pullman diretto a Yogyakarta.
Ripartiamo attraverso il cuore delle foreste di Giava meridionale.